venerdì 30 novembre 2012

Critica impietosa del Fantastico e dei sinistri stradali

Oggi sono estremamente irritato.
Il grado di tedio e molestia sottopostomi dal mondo circostante sta raggiungendo livelli di guardia e portando il mio umore in fastidiosa e pericolosa prossimità della stizza.
Insomma, mi gira il cazzo.
Per questo motivo, oggi vi ricorderò perché noi amiamo il Fantastico, e voi ve ne starete buoni buonini in silenzio ad ascoltare, ché uno stormo di schiaffi è già in formazione sulla pista di decollo…

La dichiarazione ufficiale che rilasciamo alle conferenze stampa quando ci chiedono perché amiamo il Fantastico si avvicina, grossomodo, a: «È uno stimolo costante per la fantasia, ci permette di metterci continuamente alla prova, di tenere vivo e accrescere il nostro lato creativo. Ci sono inoltre un sacco di studi che dimostrano come l'utilizzo reiterato della parte creativa del cervello renda più brillanti e capaci di far fronte a ogni situazione, sviluppi il pensiero laterale, bla bla bla».
Sì, vero, inopinabile e incontrovertibile. Tuttavia, le ragioni più profonde sono quelle più taciute.
Noi amiamo il Fantastico, noi br-amiamo il Fantastico perché è la nostra valvola di sfogo, il nostro rifugio sicuro, la nostra camera iperbarica di compensazione. Nei casi più gravi, il nostro sedativo che ci previene dal divenire, a ragion veduta, folli dinamitardi o perfetti assassini seriali di natura rettile.
Il punto cruciale della questione è che il mondo ha la disdicevole propensione a risultare frustrante, tarpante, gretto e sbilanciato. Non troppo dissimile dalla quarta edizione di diendì, ma spogliato anche di quell'ultima vestigia di colore che l'inqualificabile MMO cartaceo succitato si sforza debolmente di mantenere.

Ambientazione base da arredare a piacere

Immaginate un baldo giovinotto creativo, con una solida e aurea visione, che voglia realizzare qualche mirabile opera di ingegno capace di portare un po' di luce nei cuori e nelle menti dei suoi complanetari. Ve lo figurereste avanzare a passo di corsa giuliva per i fioriti campi del successo sostenibile?
Giammai.
Ognuno di voi non necessiterà dei prodigiosi talenti di Cassandra e Laocoonte per prevederne il fato imminente. Ognuno di voi ha immantinente chiara negli occhi della mente la visione del nostro eroe moderno mentre viene crudamente arrestato nella sua avanzata dalle sabbie mobili di una burocrazia inaffrontabile, debilitato dall'incredulità beffarda originata dal lato opposto delle scrivanie a cui siede di volta in volta, umiliato nella mendicante questua volta al raccimolo del conquibus necessario all'intrapresa…
Portate, altresì, alla mente un talentuoso artista, sia egli bardo, poeta o giovin maestro d'altra disciplina. Forse che al momento in cui il vostro pensiero corre al suo avvenire, immaginate per lui la repentina apparizione di un fulgido mecenate, pronto e propenso a farsi carico delle sue necessità con il solo proposito di metterlo in condizione di dedicarsi unicamente alla coltivazione del proprio percorso artistico?
No.

Una serie di sfortunati tiri di dado


Potrei protrarre questo novero di lampanti esempli ancora a lungo, ma non lo farò, perché oggi, come i più attenti di voi non avranno mancato di notare, sono lievemente alterato e ho poca pazienza.

Quale mai sarà, dunque, il nocciolo di quest'ingarbugliata argomentazione?

Non fate domande cretine e seguitate a leggere!
Adesso vi racconto un accadimento autobiografico occorsomi nell'ultima decade.
Conducevo serenamente la mia vettura lungo un viale scarsamente trafficato a una quieta ora della sera. Dopo una doverosa sosta, impostaci dal segnalatore luminoso, in carovana con gli altri conducenti circostanti, riprendemmo la marcia di buona lena.
Al che, un deficiente di attitudine alla guida, prodigo, tuttavia, di inettitudine alla vita, eseguendo una manovra in ogni modo proibita dalle norme di circolazione, si pose in condizione di far cozzare la mia vettura con la sua.
Senza entrare nello specifico delle dinamiche che ebbero luogo, vi basti sapere il minus habens di cui sopra era detentore del torto più completo.
Non avendo, non ostante ciò, il mio veicolo riportato che trascurabili danni, mi offrii cavallerescamente di lasciar cadere la cosa (confesso che in tale decisione concorse in minima parte anche la premura).
Ebbene, a distanza di alcuni giorni, quella inqualificabile testa di cazzo se ne viene fuori con una richiesta di risarcimento danni!

Oibò, di quale seccante e snobilitante vicenda si è visto nolente protagonista il nostro caro oratore! Tuttavia, ove mai andrà a parare questo suo sconclusionato intervento?

Mie carissimi, tacete, seguitate a leggere e non perseverate nell'interruzione, che se anche solo intravedrò l'ombra di una microespressione facciale di dubbio e perplessità sui vostri volti, vi è un intero squadrone di sberle bramoso di librarsi nei cieli…

Ritorniamo dunque col pensiero alla questione eviscerata in precedenza. Il mondo reale, questa amara realtà, ci delude con puntualità elvetica, imponendoci di rifuggirlo e di arroccarci nell'universo Fantastico.
Allora andiamo tutti a giuocare.
E qui le medesime meccaniche si ripropongono! Perché noi siamo realtà, viviamo di realtà, respiriamo, mangiamo, tristemente bramiamo la realtà. E ce la portiamo dietro, ovunque, anche nel Fantastico. Specialmente nel Fantastico.
Perché vogliamo che sia vero, perché non lo amiamo davvero per ciò che è, ma vogliamo, invece, che sia quella realtà appagante che l'altra realtà non è. Vogliamo che ci dia la soddisfazione che l'altra realtà non ci dà. Cerchiamo di renderlo reale. Rovinandolo.


Il Mago. Adesso vi userò la cortesia di esporvi alcune mie riflessioni sul Mago.
Il Mago è il primo arcano maggiore, non contando lo zero, che è il Matto, ed è più una meta che un punto di partenza. Il Mago è l'inizio del viaggio nel cosmo, è la potenzialità assoluta.
Il Mago può attraversare lo spaziotempo, visitare le infinite dimensioni, apprendere come leggere e riscrivere le leggi dell'esistente, comprendere e comporre, manipolare e creare. Il Mago è la creatività e la creazione, è quel «a sua immagine e somiglianza li creò», è lo stato di elevazione e completezza a cui l'uomo per inconscia e istintiva natura tende e sempre e tenderà.
E invece no.
In primis perché in un incontestabile delirio di sovietico pragmatismo, la figura del Mago deve essere sì necessaria al party, ma bilanciata con tutti gli altri personaggi, compreso il bardo...
In secundis, e con ben più copiosa ignominia, perché, ahimè, in un contesto che è fuga dalla frustrazione e rivalsa dalle angherie subite, ciò che conta in soldoni son soltanto le mazzate. Ed ecco, dunque, che sparisce o, al meglio, passa sul margine dello sfondo, la prospettiva di comprendere le meraviglie del cosmo, bearsi di sopraffine creazioni, perdersi in viaggi metafisici. Al suo posto soltanto fulmini dagli occhi e palle di fuoco dal culo.


Battlemage, di Redface

Mi viene, a questo punto, spontaneo intravvedere un certo filo di congiunzione tra quei brillanti giovinotti ben dotati di sogni e talento e questi altrettanto promettenti embrioni di Maghi, riuniti in un comune destino di burocratica e bellicosa formazione…

Sì, miei oramai consolidati e fedeli sodali, sì, oggi mi vorticano le gonadi e dunque difetto di circonlocuzioni edulcorate. Oggi rivolto il drappo occultante e snudo il marcio nascosto nell'amato Fantastico. E mi arrogo financo la libertà di farlo senza neppur prendermi la briga di tratteggiare la parvenza di un filo conduttore del discorso.
E, per inciso, questo inciso non costituisce un invito a interloquire. Seguitate, composti, la lettura. Di ciò che già solca i cieli non trovo galante far ulteriore menzione.
Finalmente posso dunque invitarvi a ricondurre l'attenzione alle mie disavventure in vettura, che altro non rappresentano se non un banale e trascurabile esempio del costante tagli di vela del mondo.
Riassumendo, il germe della potenzialità assoluta, il Mago, è brutalmente ridotto a batteria di missili semovente, mentre la realtà quotidiana in cui siamo immersi ci insegna che nessuna buona azione resterà mai impunita.
E allora la soluzione è una sola.
Diventare Lich.

«Tu! Come osi abbinare un maglione blu a dei pantaloni marroni?!?»


Sarai irredimibilmente malvagio, ma ciò era scritto nelle stelle, lo si vedeva dal principio.
Gli incantesimi da te praticati saranno sempre tristi e grigi strumenti di morte e distruzione, ma si sa, è così che vanno i mondi.
Ma per lo meno, e non sarà cosa da poco trovandoti tu colà alla ricerca di rivalsa e soddisfazione, pur essendo partito come maghetto con 1d4-1 PF per livello, ora potrai toglierti la soddisfazione di marzagrare tutti quelli che ti stanno sulle palle, tutti quelli che ti guardano male, tutti quelli che ti battono il calesse. A schiaffi di 1d8+5 più paralisi.
Ora siete liberi di tornare alle vostre faccende, ma prima vorrei che sapeste che è stato per me motivo di gaudio e onore ricordarvi perché noi amiamo il Fantastico. Siete un auditorio meraviglioso, capaci di ritemprare lo spirito e infondere nuovo entusiasmo nel cuore.
Vorrei inoltre rendervi partecipi del fatto che il perito della mia assicurazione è un mastino da guerra, che a quell'impudente e scostumato malandrino farà contenziosamente il culo a strisce.
Ossequi.

giovedì 29 novembre 2012

«Ma non potevi drogarti come tutti i tuoi amici?»



La passione per il fumetto, quella vera, quella che ti porta a stare ore su internet a cercare errori di continuity o la storia di personaggi secondari ed in alcuni casi inutili (ciao Ape Rossa), l’ho avuta verso i venti anni, complice un amico bolognese che mi ha ributtato in un mondo che avevo abbandonato perché troppo intento a dedicarmi a cose meno importanti, come la scuola, le donne, virtuali e non, e cercare di capire le regole della brisca in cinque (ancora adesso non ho capito come funzioni).
Dopo circa dieci anni ho imparato qualche lezione importante che in questa inaugurazione di rubrica mi sento di condividere con voi.


  • Su emule e torrent si trova di tutto, non solo pornografia, tenetelo a mente.
  • Non importa quanto il personaggio sia secondario, ci saranno quantomeno due stronzi che passeranno le nottate sui forum a discutere della sua continuity.
  • Certe volte è più facile studiare grafologia ugrofinnica piuttosto che comprendere come faccia Wolverine a essere presente contemporaneamente in cinque gruppi.
  • Guardare i film Marvel non fa di te un fumettista, neanche guardare i Batman di Nolan.
  • Le differenze culturali esistono: se tu ami DC ed la/il tuo compagna/o Marvel mi spiace ma non è destinata a funzionare: come cazzo allevereste i figli?
  • Le persone che pensano che Superman o l’Uomo Ragno vivano nello stesso mondo sono persone con dei problemi e come tali vanno lasciate stare, non perdete tempo a educarli.
  • Se sei appassionato di fumetti e non sei spocchioso hai perso in partenza, a noi non sono concessi gli stessi vantaggi dei calciatori e nessuna velina vorrà conoscere la differenza tra l’universo Ultimate e Terra-616, né tantomeno verrà a letto con te dopo che gliel’avrai spiegata. L’unica soddisfazione che possiamo avere è far pesare agli altri la nostra conoscenza, questo pensiero sarà d’aiuto e stimolo nelle notti solitarie alla  fine delle quali perdi due diottrie.
  • Se ti fa paura la morte non ti preoccupare! Nel mondo del fumetto nessuno tira mai le cuoia: anche se finisci in un frullatore gigante in un modo o nell’altro riusciranno a portarti indietro!
  • Vogliamo parlare del cosplay? O meglio delle cosplayer? Perché anche se in Italia in fenomeno tende a colpire persone che non vorresti vedere scosciate neanche per errore vi posso assicurare che in America hanno trovato un ottimo sostituto al Cialis.
  • Pensi che pesare cento e passa chili sia un problema? Don’t worry, anche tu puoi avere un modello di riferimento, ad esempio Blob, e ti assicuro che anche lui è riuscito a riprodursi.
  • Se stai dietro a tutte le edizioni da collezione, le variant cover e soprattutto entri nel mondo delle action figures non avrai abbastanza soldi per drogarti, e questo renderà felice tua mamma.
  • L’omosessualità non diventerà più un motivo di esclusione per te, lo sarà il fatto che non ti piace Alan Moore.
  • Infine puoi vivere in un mondo dove tutte hanno la quinta, dove chiunque ha degli addominali scolpiti e dove i cattivi sono uomini calvi solitamente anziani senza necessariamente dover andare ad Arcore.





Bene, questa piccola presentazione del mio modo di vedere le cose serve solo come un saluto per aprire una serie di articoli che toccheranno il mondo del fumetto, la prossima volta partiremo con una cosa semplice semplice ma di grande impatto: Iron Man, o per meglio dire: “come cazzo è possibile che a me per due birre mi tolgono la patente e Tony Stark guida armature da miliardi di dollari?”.

Stay hungry, stay foolish, stay nerd

mercoledì 28 novembre 2012

La Space Opera turca che non ti aspettavi

Succede che il martedì sera una persona si annoi, no?, e si chieda cosa possa fare. Un normodotato nel pieno delle proprie facoltà mentali uscirebbe per prendersi una birra in un pub o, che ne so, leggerebbe un bel libro. Potrebbe anche guardarsi un film, ma in questo caso non tenterebbe di sorbirsi una pellicola turca sottotitolata, considerata una delle opere di fantascienza più brutte della storia del cinematografo.
Un normodotato, abbiamo detto. Io tutt'ora mangio i pastelli a cera se non mi vengono nascosti, perciò è quasi scontato che abbia avuto il coraggio di guardarmi Dünyayi Kurtaran Adam'in Oglu, senza per giunta chiedermi che diavolo abbia sbagliato nella mia vita.




Per contestualizzare le vicende ambientate nel 2055, la narrazione si apre con un breve elenco dei momenti cruciali nella millenaria storia turca, dalla presa di Costantinopoli per mano di Maometto il Conquistatore alla rivoluzione novecentesca di Atatürk, senza ovviamente dimenticare l'evento recente più importante per la Nazione.

La Coppa Uefa vinta dal Galatasaray nel 2000. Oh, giuro che non me lo sto inventando.

Dopo essere riusciti nell'impresa di alzare una prestigiosa coppa con un manipolo di nani incazzosi, per i fieri turchi non rimane che conquistare la Galassia. Karpal, senza praticamente alcuna preparazione, viene scelto dal suo Governo come capitano della prima nave interstellare anatolica, concedendogli l'onore di portare in alto il nome del proprio Paese, là dove nessun kebab è mai stato preparato senza cipolle e con tanta salsa piccante.

Il fiero Karpal alla guida dell'astronave. Notare il sobrio volante cromato da imperatore ottomano degli autotrasporti.

L'ex tassista di Ankhara ripaga la fiducia in lui riposta perdendo dopo cinque minuti il suo vice Gökmen nello spazio e sprecando i successivi otto anni alla sua disperata ricerca. E per farlo mica utilizza sofisticati strumenti di triangolazione o sensori laser, no, piuttosto piagnucola costantemente in un megafono sperando che qualcuno gli risponda. Quando un'anima illuminata ammonì che "nello spazio nessuno può sentirti urlare", evidentemente lui era in bagno a levarsi i peli del naso.
La capitale ovviamente non è contenta del fallimento di Karpal e si trova costretta a tagliare i fondi al progetto spaziale, ritenuto ormai una costosa perdita di tempo. Il capitano però non si scoraggia e continua nella sua cruciale missione di salvataggio, conscio di avere dalla sua parte un equipaggio fedele e pronto a ogni sacrificio pur di raggiungere l'obiettivo.

Credici.

La ciurma ha purtroppo perso qualsiasi motivazione: non viene pagata da tre mesi, non tocca il suolo terrestre da anni e le telefonate extragalattiche francamente hanno un costo che non ci si crede.
Ed è un peccato, perché si tratta della crème de la crème del progetto aerospaziale del Paese, donne e uomini dotate di grandissimo senso di responsabilità…

«Un asteroide sta per impattare sullo scafo della nave? Estica', appena finisce la gara di cavalli ci pensiamo.»

… e una preparazione tecnica di assoluta eccellenza.

Un metodo a quanto pare infallibile per scegliere il comando di accensione degli scudi.

Se l'inadeguatezza della compagnia non fosse già un pericolo sufficientemente mortale per l'Universo, ci viene mostrata la vera nemesi del film, il Grande Signore Uga. Egli, già piuttosto influente in certi salotti democristiani del nord Italia, non si accontenta del potere, no, vuole addirittura stritolare l'Esistente in un morsa di dolore e paura. Niente fermerà la sua poderosa macchina di terrore, niente.

Nemmeno un bravo estetista.

Il suo primo obiettivo, guarda tu il caso certe volte, è la Terra, che lo ha sempre scherzato per le maniere sgraziate e per quella barba da Mandarino della Garbatella. Non solo: la distruzione dell'odiato pianeta sarà vendetta sufficiente contro l'Uomo che ha salvato il Mondo, l'unica creatura che è stata in grado di sconfiggerlo e umiliarlo in singolar tenzone.

E questo nonostante sia Nino D'Angelo e vada in giro a fare mossette molto daniel-san.

E questo nonostante Uga gli abbia già rapito per dispetto il figlio Zaldabar molti anni prima, per crescerlo come suo.

A guardare il taglio di capelli da cantante dei Dari del figlio adottivo,  temo gli abbia fatto un piacere.

La scena poi passa nelle sale dell'Unione Orinea, dove il re Dogibus IV chiede per la centordicesima volta di  poter entrare con Lunatica nella Comunità della Cintura. L'assemblea lo prende a pernacchie, ché l'economia del pianeta ristagna, non hanno garanzie bancarie sufficienti e il suo popolo pare formato da soli gretti pastorelli del basso Lazio. Si sente puzza di critica alle politiche mitteleuropee, chissà perché.
Poi, incalza il presidente dell'Unione, Lunatica ha problemi interni con un fronte rivoluzionario, capeggiato a quanto pare da un tale Gökmen. Stupore.

Ogni riferimento a un certo consiglio di un certo film con le spade laser è puramente casuale. Notare la statua di Uga, padre-padrone dell'Unione, che mostra un repertorio espressivo più interessante dell'attore che lo impersona.

Dogibus, scoraggiato, manda un uomo a cercare Zaldabar per chiedergli di sistemare una volta per tutte la faccenda del novello Che Guevara dello spazio. Il mentecatto prima temporeggia un po', vendendo abusivamente concessioni edilizie e trafficando in tabacco d'esportazione (non è una battuta, lo fa davvero), poi risponde alla chiamata del re con grande entusiasmo. E per "entusiasmo" intendo "arrapamento violento", visto che il sovrano in cambio gli darà la mano della figlia Maya, una principessa così bella che ti chiedi se abbiano drogato l'attrice con il Roipnol per farle accettare la parte.

Il capitano Karpal intanto continua a urlare nel megafono, tipo arrotino-ombrellaio spaziale, in cerca dell'uomo che abbiamo scoperto essere vivo. In uno dei pochi momenti in cui non sembra Mario Merola, Karpal rivela allo spettatore il suo più intimo segreto: egli è il figlio dell'Uomo che ha salvato il Mondo.
Un segreto così segreto che anche l'IA della nave lo sa e lo prende per il culo.




La sua nave incrocia quella di Zaldabar e i due si incontrano per la prima volta. Sgomento: sono gemelli. Il fatto che siano lo stesso attore certamente non aveva insospettito nessuno.
Il pirata spaziale rapisce la segretaria Milf dell'equipaggio, costringendo il capitano a un inseguimento con sportellate che nemmeno a Trapani nelle corse illegali fra Fiat Ritmo truccate.
La nave turca ha la peggio ed è costretta a un atterraggio di fortuna su, chi l'avrebbe mai detto, il pianeta Lunatica. Con la batteria esausta, il capitano parte alla ricerca di un'officina di riparazioni, opzione che dovrebbe essere probabile quanto sedurre Belen Rodriguez con una frog splash dalla terza corda. Eppure.


Zaldabar raggiunge il castello del re per conoscere la sua futura sposa, ma Maya è fuggita dalla reggia per raggiungere la zia, a quanto pare sposata con Gökmen da qualche anno. E qui anche il pubblico professionista di Un posto al sole inizia ad avere qualche giramento di testa.
Come avrà preso la notizia il figlio di Uga?

Vedendo come balla col sosia di Jonathan del Grande Fratello, direi piuttosto bene.

In un caso del destino che fa sembrare la trama media di Sailor Moon una serie di eventi cronologicamente plausibili, la regina Maya e Karpal si incontrano nello stesso autogrill (sic!). Sempre per combinazione, Karpal scopre l'intenzione di Maya di raggiungere Gökmen e la implora di portarlo con lei.
Maya all'inizio scambia il capitano per il suo gemello cattivo e lo tratta peggio di un filippino a un ritrovo della Lega Nord, poi, dopo una scena imbarazzante di cui preferisco non parlare, l'omino in tuta rossa convince la donna ad accompagnarlo.
Dopo un numero inquietante di ore su delle motorelle di cartone travestite da auto, il dinamico duo raggiunge il luogo in cui si nasconde Gökmen con la sua nuova famiglia. Ed è talmente una minaccia per l'equilibrio di Lunatica da vivere in povertà nei Sassi di Matera.



E uno si chiede: "Gökmen come si è salvato e ha raggiunto Lunatica?". Nino D'Angelo, volando fra le stelle, lo ha recuperato nel vuoto dello spazio, proteggendosi per giunta con una sola ridicola tuta d'acetato. E poi c'è chi ha il coraggio di dire che la roba fabbricata in Cina non sia di qualità.




Purtroppo, dopo una terribile lotta a suon di ceffoni contro le forze reali, l'Uomo che salvò il Mondo è stato messo sotto ghiaccio per evitare che morisse a causa dalle ferite subite. Sì, non in stasi criogenica, proprio in un blocco di ghiaccio.
Segue momento di commozione fra Karpal e il papà surgelato Findus. Seguono nostri sbadigli.
Ma è finito il momento del cazzeggio emotivo, ché Zaldabar ha scoperto il nascondiglio di Gökmen e attacca con tutta le sue truppe d'assalto, formate da una dozzina di pupazzi usciti dai Power Rangers e tre prostitute robotiche vestite di latex e pelle.
Vien da sé che Karpal e compagnia di pezzenti, davanti a tale dispiegamento di uomini da parte dell'avversario, venga umiliato che nemmeno il portiere di una partita di tedesca ai giardini.

Maya viene acciuffata da Zaldabar e preparata per il futuro matrimonio. Il capitano, dopo la sua dose di calci in culo obbligatoria per contratto, ovviamente non può stare là con le mani in mano e godersi la pensione come qualsiasi persona assennata, no.
Durante il matrimonio si oppone (sì, dice proprio «Mi oppongo». No no, bravi, continuate pure a illudere futuri mariti incastrati che c'è davvero la possibilità succeda) e dichiara a tutti i partecipanti che Zaldabar è, come lui, figlio dell'Uomo che ha salvato il Mondo. Zaldabar si commuove e capisce di aver sbagliato, mentre il patrigno Uga no, altrimenti pareva brutto finirla senza un po' di sganassoni.

Durante lo scontro Zaldabar - Darth Uga, veniamo a conoscenza dello stile di spada Jedi chiamato "Tarantella ubriaca".

E dopo? E dopo niente, vince la bontà, i fratelli si amano e la gente si sposa un po' a caso senza che siano andati neanche a prendere un caffè insieme.

Scorrono i titoli di coda e immagino non debba aggiungere commenti seri sulla pellicola, tanto trovate il film in lingua originale su Youtube se avete voglia di autoflaggellarvi.
Se non vi spiace, ora torno a mordicchiare un pastello.

martedì 27 novembre 2012

Morte - Parte seconda





Così procedevo, tra ottimi liquori e buon vino nella mia casetta, calde, intense e brevi avventure davanti al fuoco, inesauribili libri ricchi di saggezza, e risate tra amici in fumosi pub accoglienti.
In un turbine continuo. Senza sosta. Senza quiete. Senza silenzio. Senza lucidità.
Così procedevo, e non mi dispiaceva, perché gli amici erano veri, le donne erano belle, i libri interessanti e gli animali buffi e curiosi.
Non mi dispiaceva perché ero abbastanza bello, abbastanza forte, abbastanza intelligente, abbastanza sano. Ero persino abbastanza buono e abbastanza bravo; e mi piaceva questo casino.
E il vino era davvero buono.
Così procedevo, finché qualcosa non cambiò.

Successe una sera, o forse sarebbe meglio dire una notte. C’era una nebbia che non si vedeva a due passi, fitta e densa, quasi solida.
Il gelo ti arrivava fino alle ossa, amplificato dall’umidità che ti avvolgeva senza lasciarti scampo.
Tornavo a casa dopo aver bevuto qualche boccale di sidro con alcuni amici. Sul viso avevo residui di sorriso, strascico della reazione chimico-energetica fra l’alcool e la piacevole serata.
Camminavo tranquillamente per le strade deserte della città, nel gelo, nell’umido, verso la mia piccola, accogliente casetta di pietra.
Mi muovevo nel buio quasi totale per le vie percorse mille volte, spostandomi da uno sparuto, misero baluardo di luce, proiettato da qualcuno dei rari lampioni superstiti, all’altro, attraversando mari d’ombra.
Anche i fantasmi, quella sera, erano tranquilli.
Non erano pochi né molti. Non che stessero fermi o che facessero silenzio. Però parevano essersi organizzati in una sorta di schema caoticamente ordinato.
Mi sembrava come di percepire le loro singole presenze. Non più un flusso indistinto, una moltitudine fusa e magmatica, ma singoli individui, entità con confini precisi e ben delineati. Probabilmente avrei potuto determinarne con accuratezza la posizione nello spazio, magari contarne il numero preciso in un dato momento. Forse, con un enorme sforzo di concentrazione, avrei potuto persino udirne le voci, se davvero di voci si trattava.
Arrivato nella mia casetta avrei acceso il camino e, sprofondato nella mia comoda poltrona, avrei sorseggiato un bicchierino di porto. Poi a nanna. Questi erano i piani: una perfetta, fredda notte autunnale. E anche i fantasmi sembravano d’accordo.
Procedevo esattamente con questi propositi quando, sul marciapiede, proprio sotto un lampione funzionante, camminando in senso contrario, mi passò accanto una ragazza.
Era bella, molto bella. Davvero molto bella.
No, non basta.
Giovane, alta, snella e atletica, con la pelle liscia e bianca come la neve. Lineamenti fini, decisi ma delicati, leggermente affilati. Occhi neri come lo spazio profondo, capelli corvini, lunghissimi, caoticamente spettinati con grazia e bellezza infinita. Aveva sulle unghie lo smalto nero; le labbra, bellissime, tinte di nero; gli occhi, per i quali un aggettivo adatto non lo trovai mai, truccati di nero.
Portava una canottierina quasi trasparente, nera. Una gonna poco più estesa della cintura che la sosteneva, nera. Calze a rete, nere. Maniche di rete, nere. Anfibi slacciati, neri. Piccoli guanti di maglia senza dita, neri. Dal lobo sinistro pendeva una piccola croce d’argento.
Tremava.
La nebbia l’avvolgeva, facendola uscire da un sogno gotico. La luce pioveva su di lei, sfocata nella bruma, come un’aura splendente. Comparve, mi passò accanto, scomparve, dal buio attraverso la luce di nuovo nel buio.
Mi passò accanto e mi gettò un’occhiata sfuggente; sul suo sublime viso malinconico un’impercettibile, curiosa perplessità, un attimo di sorpresa, poi passò oltre, nel buio.
Tremava.
Mi guardò come si guarda qualcuno che è girato dall’altra parte, che non ti vede. Mi guardò come se avesse visto i fantasmi e non me.
E, per un attimo, per un brevissimo intensissimo istante, per la prima volta da quando ho memoria di me, silenzio.
Non so quanto rimasi immobile a fissare il buio nel punto in cui lei era sparita, quanto rimanemmo a fissarlo, fermi, in silenzio, io e i miei fantasmi, che sembravamo essere una cosa sola. Pochi secondi credo.
Ma la prima boccata d’aria umida e gelata che ritornò a riempire i miei polmoni fu come un secchio d’acqua altrettanto fredda in faccia che ti strappa al sonno.
Quindi, lentamente, sommessamente, i fantasmi ricominciarono. E ricominciai anch’io, a camminare, a passo veloce. Dietro di lei.
Così eccola lì, che camminava di fronte a me, un piede davanti all’altro, la testa china e le spalle curve, stretta nelle sue braccia.
Tremava
Pareva persa nei suoi pensieri, straniata, come se non fosse lì, non del tutto. Non sembrava essersi accorta di me, che ora la seguivo in silenzio. E anche i fantasmi ronzavano più piano.
Mi levai la giacca e le arrivai alle spalle, in silenzio. Lei continuava a camminare, lentamente, in se stessa.
E tremava.


[Continua]


Parte prima

lunedì 26 novembre 2012

Un'indagine socio-antropologica nel mondo dei Giocatori Schiappa - Parte Prima

Una delle parti più divertenti del lavoro di un master è la possibilità di confrontarsi con giocatori delle più disparate tipologie e nature.
Una di quelle meno divertenti è incontrare un Giocatore Schiappa. Tale creatura, con i suoi comportamenti assurdi e psicotici, è capace in poche sessioni di distruggere l'opera d'amore e condivisione di un master. Secondo studi da poco pubblicati nella rivista di psicologia «Fare soldi con gente distesa su un lettino senza fare massaggi», fa girare la testa il numero di narratori di Vampiri finiti in analisi dopo una cronaca quinquennale andata a capinere per colpa dell'ultimo arrivato.
Al contrario di quel che si possa pensare, non è semplice riconoscere un innocuo giocatore inesperto dal letale Giocatore Schiappa, perciò cercheremo di catalogarli affinché li riusciate a individuare e neutralizzare prima che sia troppo tardi.


Il Timido

Accurata rappresentazione grafica dell'apporto ruolistico di un Timido medio.

Caratteristiche macro e meso sociali

  • Nei ritrovi esclusivi dell'alta società, tipo le cene da universitari spiantati a base di merendine ipercaloriche e birra in lattina, è spesso posizionato a mo' di soldatino di latta in un angolo, a fare a gara di decorazioni murarie con stucchi e carte da parati. 
  • È il classico amico che inviti per un concerto in trasferta e abbandoni per sbaglio all'autogrill, per giunta con il conto della comitiva – che comprende fra le altre cose trenta caffè, dodici camogli ghiacciati, sette spume bionde, un cd live di Laura Pausini e dei Grisbì confezionati probabilmente in Ungheria nel 1932 – da pagare. 
  • Nelle partitelle di calcetto non ha neanche il lusso di essere scelto per ultimo, ché gli viene dato direttamente un fischietto e guai a lui se fa il cornuto infame pezzodime' figlio di enne-enne provando anche soltanto ad avvicinarlo alle labbra.


Dinamiche di azione nella fattispecie ruolistica

  • Parla pochissimo e quando costretto dalle circostanze usa un tono di voce così basso che Daredevil gli risponde "Scusa, puoi ripetere, non ti ho mica sentito".
  • Nei momenti cruciali della sessione si mimetizza dietro una pianta ornamentale e, se provi a stanarlo per chiedergli un'opinione, emula il verso dell'upupa in amore per confonderti.
  • Alla spartizione del bottino, sospira sollevato quando gli altri combattono per i pezzi più pregiati senza tirarlo in mezzo, anche se questo comporterà l'accontentarsi del famigerato elmo maledetto di ricotta o una confezione usata di assorbenti per orchi.
  • Al suo turno in combattimento cercherà di copiare le mosse del suo vicino di posto o, quando non possibile, simulerà in maniera convincente un'attacco di malaria vomitando sulle schede personaggio.


Criticità relazionali in contesto di tavolo

  • La sua costante invisibilità migliorata vi farà dimenticare della sua presenza e, quando meno ve l'aspettate, colpirà con la violenza e la ferocia di un italiano che cerca un bidè in un albergo inglese.
  • Considerato il suo credito karmico, i suoi tiri di dado sono più letali della Salerno - Reggio Calabria il quindici d'agosto.


Chiavi interpretative e prassi attuative per la risoluzione del conflitto

Giocate una sessione da soli aiutandolo a costruire un personaggio che si adatti al suo stile di gioco passivo. No, non un gazebo di pietra, per favore.

 Il Tecnico




Caratteristiche macro e meso sociali



  • Si prende una laurea quinquennale in ingegneria meccanica soltanto per decidere la motorizzazione della sua futura Golf.
  • Al bar ordina sempre un caffè. Macchiato freddo. Ristretto. In tazza grande. Fredda. Accompagnato da 28 centilitri d'acqua minerale. In un tumbler basso. Con un solo cubetto di ghiaccio. E un cioccolatino. Fondente. Extra fondente. Se la richiesta non è rispettata alla lettera, pretende di passare dietro al bancone per istruire il gentile ma inesperto barista affinché tale imperdonabile dimostrazione di imperizia non si presenti più. Non è un caso che intorno ai trent'anni quasi tutti i Tecnici non possano più entrare in luoghi di ristorazione senza l'autorizzazione del giudice.
  • Completa assenza della più basilare capacità d'astrazione. Se durante una delle sue infinite disquisizioni  gli viene intimato di non menare il can per l'aia, farà notare con risentimento come abiti in pieno centro storico e sia un fervente sostenitore del movimento animalista.
Dinamiche di azione nella fattispecie ruolistica
  • Arriva alle sessioni di gioco accompagnato da due silenziosi sherpa tibetani, carichi come muli di manuali spesso sconosciuti, redatti in qualche oscura lingua morta e ritrovati in uno scavo archeologico nel Corno d'Africa. Nel caso sia un Tecnico con un debole per la tecnologia – praticamente tutti – coprirà la sua zona di tavolo con tablet, cellulari, notebook e calcolatori NASA delle dimensioni di un salone di Versailles.
  • I calcoli matematici alla base della sua ultima scheda hanno ispirato il metodo sperimentale dei premi Nobel Haroce e Wineland per la misurazione e manipolazione di sistemi quantistici individuali. Quella precedente ha creato vita monocellulare su Plutone.
  • Nei momenti cruciali di una sessione, sfodera a sorpresa un sistema che permette in novemilaquindici mosse di superare abilmente la sfida e guadagnare un milione di monete d'oro. Reali.
  • I suoi turni di combattimento sono così lunghi e complessi da richiedere una dispensa di cibo da rifugio antinucleare per non morire di fame nell'attesa.

Criticità relazionali in contesto di tavolo
  • La sua più grande fantasia erotica è quella di correggere una procace master sul suo uso "francamente imbarazzante" del ruleset. Anche se non siete procaci, state attenti a dove tiene le mani, ché non mancherà comunque di farvi notare quanto facciate schifo nel vostro lavoro.
  • Ogni scontro che preveda l'uso di dadi diventa una guerra di logoramento, per giunta di quel genere in cui tu hai un fucile ad avancarica e lui un cannone a rotaia con una canna di cento metri.

Chiavi interpretative e prassi attuative per la risoluzione del conflitto

Utilizzare un sistema diceless con ambientazione creata ad hoc. Per quanto sia efficace nel neutralizzare la sua natura virulenta, potrebbe letteralmente ucciderlo. Se alla fine della prima sessione notate l'insorgere di strani tic, concludete l'esperimento prima che scali nudo il Gran Sasso nel tentativo di prendere un punto specializzazione in sopravvivenza.

venerdì 23 novembre 2012

De conservatione Humanitas - ovvero delle ragioni per cui gli elfi ci stanno sul cazzo


Gli Elfi.
Creature meravigliose, aggraziate, immortali. Emanazioni spirituali degli elementi e della natura stessa, sue rappresentanti e protettrici. Padrone della magia, capaci in ogni arte e mestiere, capricciose e volubili ma sagge e potenti.
Già mi stanno sul cazzo.
Arrivano nel nostro scialbo mondo portati dalla mitologia norrena, che ci ha regalato tante e tali meraviglie che le potremo pur perdonare qualcosa… E infatti fin qui, perlomeno, si fanno ancora i fatti loro nell’Alfheimr. O nello Svartalfheimr se sono un po’ più simpatici e più abbronzati.
Di questi fastidiosi Topolino ante litteram è pieno il folklore di tutto il nord Europa. Non sbagliano mai alcunché, vivono spassandosela eternamente e, quando capita loro di annoiarsi un po’, fanno qualche innocente scherzetto agli umani. Che puntualmente ci restano secchi. Perché gli elfi sono troppo ultrameravigliosi perché si possa sopravvivere alla loro bellezza.
Non è difficile intuire l’opinione che aveva degli elfi l’uomo del tempo, che un po’ più di sale in zucca di noi a quanto pare l’aveva.
Già gli stavano sul cazzo.
Li rappresenta nelle sue inarrivabili opere financo il sommo Shakespeare, rendendoceli un po’ più simpatici e divertenti, ma ritraendoli, dopotutto, per quello che, di fatto, sono: degli irritanti bimbiminkia che giocano con le cheat.

A un certo punto arriva il buon Tolkien, anche lui saggio padre di ’sì fulgidi e ricchi universi che la pazienza con cui è d’uopo approcciarsi a certe sue discutibili scelte non può scarseggiare. Lui degli elfi è inguaribilmente, insalubremente, irriscattabilmente innamorato.
Creature di luce, armonia e saggezza, immortali, primo popolo, dotate di grandi poteri (che però preferiscono non usare, andando in vacanza nel nuovo continente e lasciando le beghe da sbrigare agli umani). Sembra tutto come prima, no?
No! Perché adesso vivono tra noi, fianco a fianco, facendo le stesse cose. Ma meglio.
Costruiscono abitazioni, ma più belle delle nostre, che poi raggruppano edificando città, però più belle delle nostre.
Passano le loro vite (infinite e dunque assai più lunghe delle nostre) a fare più o meno le stesse cose che facciamo noi, ma meglio.
Ci vedono meglio di noi, ci sentono meglio. La loro voce è più bella della nostra.
Sono più veloci e più aggraziati di noi. Ma non tipo il più bravo della classe in ginnastica, no.
Loro sono il figlio di Don Lurio e una pantera. Allevato da un ninja. Che ha studiato il parkour. Quando non era impegnato a suonare nell’orchestra, s’intende. Tutti gli strumenti. Da solo. Contemporaneamente.
Ogni loro mossa è un capolavoro artistico. Ed è superfluo ricordare che sono inarrivabilmente più belli di noi (checché il bravo ma scarsamente telegenico Craig Parker, vestendo i panni di Haldir, possa farci pensare…).

Se non fosse stato bloccato dal criterio di selezione dei candidati, chissà dove sarebbe ora.

E fin qui siamo ancora all’interno dell’universo tolkieniano, creato da un maestro indiscusso, un narratore con un talento inarrivabile, un creatore di mondi, un genio. Da qui in poi non potrà che peggiorare.
Il portale che conduce nella Terra di Mezzo resta aperto e frotte di effeminati androgini sottopeso si riversano nel nostro presente letterario, ludico e cinematografico, scrollandosi di dosso lungo il tragitto le ultime vestigia di carisma e virilità che il buon J.R. (R.T.) aveva lasciato loro.
Da Elfi: questi sconosciuti, i giornali iniziano a titolare L’elfo della porta accanto: l’integrazione razziale nel nuovo secolo.
Frotte d’implumi efebi otopuntuti invadono il nostro immaginario, schiacciando e mettendo in fuga i rudi barbari virili, i malvagi stregoni, gli spietati tagliagole e i raccapriccianti necromanti che un tempo vi regnavano, sovrani incontrastati (dei vampiri non facciamo menzione, ché anche loro attualmente se la passano poco bene. Hanno contratto un atroce morbo, il cui sintomo più vistoso e imbarazzante è un malsano scintillio). Come loa diafani, come rubicondi angioletti custodi, queste vacue entità immateriali si pongono a latere di schiere di minus habens d’ogni età, sesso e fascia di peso, predicando l’indefinitezza sessuale, la bellezza della pura estetica priva di contenuto e il diaframma spalancato per dissolvere i lineamenti del viso in un abbagliante splendore stereotipato.

Esteticamente gradevole anzichenò, ma mi ricorda qualcuno…

Ma senza perdere la sanità mentale immergendoci in questo maelström di orrore a base di melassa e orecchie a punta, già nella Terra di Mezzo una domanda sorge spontanea: a cosa servono gli umani in un mondo abitato dagli elfi?
Facile: ad adorare gli elfi come dèi in terra, vivendo con loro in pace e armonia, ammirandone le qualità e traendone esempio e consiglio.
Eccellentissimo sir John, ma voi la conoscete la razza umana, sì?
Il vostro nobile animo di cavaliere e sognatore vi preclude di certo alcuni spunti di riflessione grevi e sguaiati, eppur roboanti nel loro ineluttabile realismo, che, da machiavellico e gretto materialista qual sono, mi accingo or’ora a illustrarvi.

Lo Scrondo?

Ecco di seguito quanto sarebbe verosimilmente accaduto in un reale scenario di convivenza elfico-umana.
Dapprincipio gli umani avrebbero accentrato le attività della loro vita quotidiana attorno a saldi principi comunitari, basati sui legami della famiglia, del clan e della razza. Avrebbero così condotto una vita drasticamente separatista ma, sulle prime, non belligerante, limitandosi a escludere l’elfo e a non condividere territorio e risorse. Un atteggiamento che potremmo definire difensivo.
Ben presto, però, gli uomini, parimenti scaltri e paranoici, si sarebbero resi conto di quale e quanta minaccia l’elfo rappresentasse nella realtà: avrebbe saturato il mercato del lavoro con la sua figura iperqualificata, avrebbe generato pandemie di sindrome depressiva con i suoi continui attentati all’autostima umana, avrebbe portato a un annacquamento esponenziale della razza, perché, diciamocelo, quale uomo vuole scopar copulare con un altro uomo quando può zifonars accoppiarsi con un elfo? Senza contare l’ingestibile incremento dei reati sessuali, perché, diciamoci pure questo dato che siam giunti fin qui, gli elfi gli umani li schifano abbastanza, suppergiù per il motivo menzionato poc’anzi.
Armato della caparbia e pacata furia del debole, l’Uomo avrebbe pianificato e attuato una serie di efficaci contromisure preventive. Sarebbero partite campagne diffamatorie a mezzo stampa, con i tiggì titolanti Marrazzo confessa: mi hanno condotto gli elfi sulla cattiva strada, Elfi nerboruti con mazze e passamontagna trasformano pacifica manifestazione in bagno di sangue e violenza e perle di pari tenore. I governi avrebbero deviato fondi neri per sovvenzionare gruppi xenofobi paramilitari di matrice fanatico-religiosa. Le grandi multinazionali, di comune accordo con gli Illuminati, avrebbero scatenato guerre ideologico-commerciali con l’apertura di fast food, shopping mall e multisala nelle più importanti foreste. I servizi segreti avrebbero addestrato schiere di testimoni di Geova, mandandoli a evangelizzare i domini elfici albero dopo albero. In linea con i protocolli segreti stilati dalle più alte eminenze grigie, Bruno Vespa e Giuliano Ferrara avrebbero magnificato la razza elfica e le sue virtù, abbattendo così il gradimento delle fasce progressiste più estreme e delle sinistre extraparlamentari, ultime frange rimaste ancora possibiliste di fronte all’eventualità di una convivenza pacifica.
Quindi, una volta preparata l’opinione pubblica, avrebbero avuto inizio campagne sistematiche di acquisto delle terre elfiche, da annettere al territorio nazionale umano, da disboscare e urbanizzare. Di qui sarebbe stato assai breve il passo verso politiche di epurazione razziale ed eugenetica (o, a ben vedere, in questo caso, cacogenetica), affiancate da ben più ampie operazioni di guerra batteriologica, chimica e ambientale. E se ciò non fosse bastato, gli umani avrebbero portato agli elfi l’alcol, le droghe e i casinò, ai quali è storicamente comprovato non esista essere in armonia con la natura che possa resistere…

Ammetto di aver giocato a Global Agenda solo per questo.


Questo, mio ottimo e stimato sir John, è quanto sarebbe accaduto e dovuto accadere, questo e null’altro. Nessuna gioiosa e cordiale convivenza, nessun illuminato paternalismo, nessuna filiale reverenza.
Ma altro non rimane che costatare con mestizia quanto questo giusto e appagante scenario sia lontano dal vero.
Viviamo ormai in una triste era, il cui Fantastico è talmente sovrappopolato da sgorbi platinati da farci rimembrare con nostalgia i biondi Clark Kent di Arda.
Ribollo di un pedantemente lungo elenco di sentimenti negativi, cagionati dalle inqualificabili degenerazioni subite nel corso del tempo da questa irritantissima genìa di spiriti naturali, già sufficientemente molesta in origine. L’intensità del fastidio polimorfo è tale da impedirmi di inveire contro le schiere di languide bamboline albine che foraggiano il mercato delle orecchie a punta in lattice, o contro i social freaks  over centoquaranta chili che hanno la pretesa di interpretare l’arciere arcano specializzato in stylish walk nei Gdr, talvolta anche LARP.*

Mi preme soltanto sviscerare un’ultima questione, e con essa concludo la delirante seppur incontestabile filippica fin qui condotta.
Mi rivolgo a tutti coloro che amano gli elfi più della loro razza, che si sentono elfi dentro, arrivando a definirsi tali, che se ne infischiano di stare sulle palle a tutto il party e imperterriti impersonano una fila di guerrieri elfi, arcieri arcani elfi, ranger elfi, chierici elfi, maghi elfi, ebbene: ricordate!
Tutto ebbe origine nei bei tempi andati, in cui nel nord del nord Europa la gente vagava per i boschi. Fosse per gli svarioni dati dal freddo, fosse per quelli dati dai funghi, fosse per tramandare delle verità cosmiche attraverso un linguaggio ermetico ormai perduto, costoro idearono una ragguardevole compagine di miti su dèi, giganti, nani ed elfi.
Ebbene, secondo la cosmogonia raccolta in tali pregevoli poemi, la razza umana origina da un frassino e un olmo, cui i padri degli dèi, Odin, Vili e Ve (o Odin, Hoenir e Lodur se si vuol dar retta alla Volva) donano la vita e la forma umana.
Gli elfi dalle larve che mangiarono la carne putrefatta del gigante Ymir.
Meditate.
Ve lo dice uno che ha le orecchie a punta. Per davvero. Purtroppo.



*NdA: l’autore si soffia il naso rumorosamente, poi, con il medesimo elegante fazzoletto di stoffa si asciuga gli occhi dalle copiose lacrime di rabbia e sdegno.

giovedì 22 novembre 2012

The Walking Dead - Season One




La narrazione nei videogiochi è quasi sempre brutta. Non sto parlando di una tipologia di brutto che si approssimi a "la messa in scena non riesce a esaltare le tematiche trattate", ma piuttosto a qualcosa che suoni tipo "se esiste davvero un dio, lo prego, umilmente lo prego di liquefarmi i bulbi oculari seduta stante".
È per questo che quando qualche carciofo antropomorfo travestito da P.R. mi parla di una storia cinematografica, avvincente e matura, la mia testa va automaticamente a percuotere uno spigolo della scrivania fin quando uno dei due non cede.
Per ora sta vincendo col suo legno massello, ma sento di avere buone possibilità di batterla con le uscite Ubisoft del 2013.

Capirete dalle premesse che alla presentazione di The Walking Dead e la sua struttura episodica, non ho potuto fare a meno di tirar fuori la cera da legno profumata. In un medium in cui ci vogliono emozionare ingozzandoci di G.I. Joe bidimensionali che si sforacchiano in nome della Libertà™, in che stato di orribile decomposizione avrebbero ridotto il fumetto di Kirkman a cui si sarebbero dovuti ispirare?
Brivido. Terrore. Raccapriccio.

Invece, conclusasi giusto ieri la prima stagione con il quinto episodio, posso assicurare l'integrità strutturale di scrivania e cranio, ché Telltale non solo ha rispettato fedelmente la filosofia che muove la serie dell'Image dai suoi albori, ma ne ha perfino rafforzato i pregi attraverso strumenti che solo un'opera interattiva possiede. Addirittura? Addirittura.



Eppure la prima cosa che si nota è un gameplay ridotto all'osso. All'osso sottile di un pollo malnutrito. Le parti da avventura punta e clicca offrono puzzle dalle soluzioni scontate, le fasi d'azione hanno il coefficiente di difficoltà dello scartamento di una caramella e i Quick Time Event sono così complessi da richiedere ben DUE tasti (sempre gli stessi, nel caso uno rischi di confondersi con una tale abbondanza di combinazioni).
La trama, per quanto esposta con mestiere, non è niente di più del solito pastiche sulla travagliata convivenza fra alcuni sopravvissuti di un'apocalisse zombie, tematica già ampiamente esplorata nel cinema sin dagli anni Settanta.



Dopo un'ora di gioco, quasi verrebbe voglia di bollarlo come un goffo clone di Heavy Rain, per giunta con bassi valori di produzione, e tornare a spippolare giulivi su Hotline: Miami (che se vi è piaciuto il Drive di Refn, quindi se non siete brutte persone, ve lo consiglio caldamente).
Ma proseguendo nell'esperienza, si scopre che l'anima del gioco e il suo più alto merito risiedano nell'estrema qualità di scrittura dei personaggi. E gli aspetti che sembravano deboli e blandi in precedenza iniziano ad avere un senso nel quadro generale, come funzionali e discreti strumenti che esaltano la struttura dialogica del gioco senza appesantirla di inutili orpelli.
I protagonisti di The Walking Dead sono stupefacenti ritratti tridimensionali di umanità, dotati di reazioni credibili, personalità sfaccettate e profili psicologici delineati da una penna straordinaria. Impari a conoscerli, a detestarli o ad amarli. Le loro domande sono le tue domande, la loro paura è la tua paura, il loro dolore è il tuo dolore.
Questa sensazione, che ha un suo riscontro con tutti i personaggi, è amplificata nel magnifico rapporto fra Lee, il tuo avatar, e la piccola Clementine, una bambina che hai deciso di proteggere dalla spaventosa realtà che vi circonda. E ci tengo a sottolineare la seconda persona: TU vuoi accudirla, TU ti trovi a pensare alla sua salute fisica e psicologica. È come entrare nelle pagine de La Strada di McCarthy o rivivere la commovente esperienza di Ico, giusto per farvi capire che razza di capolavori debba usare come riferimento.


Vi presento Clem, semplicemente la migliore rappresentazione di un bambino mai vista in un videogioco (e forse non basta a farle giustizia). Vi presenterei anche Lee, ma non sembra dell'umore giusto. Sapete, problemi di morti.

Con il passare delle ore, fra te e i comprimari si crea un legame affettivo reale e il tuo maggiore interesse passa dal perseguimento degli obiettivi di gioco alla vera cura dei tuoi amici digitali. Tu vuoi che stiano bene, che non soffrano più di quanto sia necessario, che possano uscire dall'incubo in cui siete precipitati insieme, mano nella mano.
Nonostante l'aspetto visivo sia volutamente fumettoso e stilizzato, finisci per dimenticarti di avere di fronte attori virtuali e credi a ciò che vedi su schermo. È una sensazione straordinaria che si prova raramente durante un lungometraggio, ancor meno nei videogiochi, molto spesso fin troppo freddi.

I rapporti con i compagni si adattano alle tue scelte durante il gioco e ti trovi spesso a riflettere (per pochi secondi, visto il sistema di dialogo in tempo reale) su quale sia il corretto piano d'azione o la risposta più giusta in una conversazione, sapendo perfettamente che non potrai mai fare contenti tutti e molto spesso le circostanze faranno scegliere solo fra il male e il peggio. Del resto siamo pur sempre nell'universo senza speranza e riscatto di The Walking Dead, un vero e proprio manifesto punk del genere.

La prima risposta spiega in maniera concisa ed efficace lo stato d'animo di Lee durante gran parte dei gioiosi eventi che lo vedono protagonista.


Le decisioni moralmente ambigue che sei costretto a prendere per tutta la durata della stagione, per quanto mai particolarmente nuove per un appassionato del fumetto, acquistano una profondità inattesa per la possibilità che cambino radicalmente la tua esperienza di gioco negli episodi successivi, oltre al fortissimo investimento emotivo sui personaggi e il loro destino.


La storia si adatta al tuo modo di giocare. Praticamente sceglie fra prenderti a schiaffi o gettarti in una betoniera accesa.


In conclusione, non posso che consigliarvi caldamente The Walking Dead, per giunta a prezzo stracciato per le prossime ventiquattro ore. Vi potrete godere una storia che si adatta alle vostre scelte, accompagnati da personaggi fra i più memorabili della storia del medium. Per giunta con il lusso, finalmente, di poter provare qualcosa.

E vi prego, se la rivedete, abbracciate Clementine da parte mia.

mercoledì 21 novembre 2012

Il Führer dietro lo schermo

A quanto pare Hitler non ha preso bene i risultati della campagna europea dei suoi giocatori.


Caro Diemme,

ti voglio bene come a un amico. Sai, come a uno di quelli non proprio sveglissimi che frequentavi alle elementari, giusto perché avevano la Cittadella del Serpente di Skeletor mentre a casa tua dovevi accontentarti di cartoni del pandoro ritagliati. Un'amicizia vera che si sostiene su solide basi pragmatiche, quindi, scevra di sentimentalismi e ipocrite comunioni di spirito. Come la nostra, in fondo.

C'è un "ma" sottinteso, vero?

Quante ore passate a giocare con la scatola rossa di Dungeons & Dragons! E la meraviglia nello scoprire più tardi che aprendola c'era un gioco di ruolo dentro! Ti ricordi la tua prima avventura, dove mi hai mandato a recuperare un amuleto in una catacomba difesa da uno scheletro guerriero? Dislocare le sue ossa a colpi di mazza e arraffare il bottino è stato bello come il primo bacio. Anzi, più bello del primo bacio, ché almeno non ho dovuto limonarmi la mano per fare esperienza.

Se credi che ora non mi aspetti un "ma", ti sbagli di grosso.

Ti voglio bene perché devo molto a te, devo molto alle tue storie. Le campagne che progetti sono per me la Cittadella del Serpente che da solo non mi potrei permettere.

Il "ma" ce l'hai in canna, sparalo subito e ci leviamo il pensiero. S'è fatta una certa, poi.

Ma… ecco, nonostante l'esperienza, nonostante la cura con cui prepari le campagne e le sessioni settimanali, ci sono degli aspetti del tuo stile di narrazione dittatoriale che tuttora mi perplimono. È un po' come se giocassimo da dieci anni con la Cittadella del Serpente e potessi usare solo quell'inutile pupazzo del principe Adam.
Sono piccolezze, per carità, e certo non te le enuncerò in un manciata di punti, ci mancherebbe.
Anzi, sì.

Arbitro cornuto!


C'è che ogni tanto ti prepari delle scene grandiose, davvero mirabili, in cui offri il meglio del tuo repertorio. Momenti epici, pieni di tensione e ricchi di significato, come l'assassinio di un principe vampiro, la scoperta di un oscuro pericolo che ci spia, il tradimento di un alleato, la redenzione di un nemico o, per fare l'esempio più lirico e drammatico, il giorno delle pensioni alla posta.
Non ci sarebbe niente di cui lamentarsi, se tu ci permettessi di prevenire o plasmare suddetti esempi in qualche maniera; invece saldi porte che si aprivano un momento prima, trucchi tiri di dadi, rendi la pozione d'invisibilità la bevanda più bevuta del mondo, nascondi alcune informazioni  e altre ce le sbatti in faccia. Con la frequenza con cui mi hai drogato, paralizzato o legato da qualche parte per non permettermi di reagire, mi stupisce non ti arrivino attestati di stima da parte di qualche stupratore seriale.
Se la storia scorre su dei binari e tu sei indubbiamente la locomotiva, a noi rimane al massimo la parte da carrozza di seconda classe col cesso intasato.

È frustrante, capisci? Se non siamo padroni del nostro destino ma meri spettatori, rischiamo di sentirci come mogli di uno sceicco la cui scelta più importante della vita è il colore delle tende in cucina.

V.I.n.P.c.


Non penso dovrei spiegarti l'acronimo PNG. Sai benissimo cosa significhi "Personaggio Non Giocante", no? Si chiamano così perché, insomma, non giocano. Sono strumenti i cui unici scopi sono aiutare od ostacolare i personaggi giocanti, mettere in moto gli eventi e fornire informazioni. Poco più di un coltellino svizzero dotato di una scheda, insomma.
In genere il concetto ti è chiaro, ma ogni tanto ti innamori di un PNG e da onesto utensile multiuso lo trasformi in agente principale della storia. Ci costringi a osservare personaggi pressoché onnipotenti e onniscienti, col fisico di Bruce Lee, la capacità analitica di Stephen Hawking, il carisma di Optimus Prime, l'attitudine al comando di Churchill e il vigore sessuale di quarantaquattro tori in fila per tre col resto di due.

In certe sessioni addirittura ne sono presenti più di un paio contemporaneamente, con nostra somma gioia (*coff coff*ironia*coff coff*). Ci tocca stare fermi come stoccafissi sottosale a rimirare le gesta eroiche dei tuoi omini, che intanto si incontrano e si scontrano fra loro, producendosi in spettacolari battaglie o in duelli di ars oratoria che ciao Romney, ciao Obama.
Non paghi, dopo averci mostrato tutto il loro formidabile repertorio di trucchi, hanno spesso il coraggio di chiedere il nostro aiuto per pratiche che potrebbero sbrigare dilatando una narice. «Certo, ho vinto al SuperEnalotto giocando solo due numeri e ho ucciso un demilich con un decespugliatore rotto, ma ora ho assolutamente bisogno che puliate la lettiera del gatto. Solo voi potete farcela!»
Sarebbe come se facessi dodici salti mortali di fronte a un tetraplegico e poi gli domandassi se può fare una corsetta dal tabaccaio per comprarmi i filtri. Non ha senso ed è umiliante.

L'immutabile fato dell'eroe

«Pillola rossa o pillola blu. È la tua ultima occasione, se rinunci non ne avrai altre.»
«E qual è la differenza?»
«Mah, niente. Una sa di mirtillo e l'altra di fragola.»

Il gioco di ruolo si regge su un meccanismo i cui principali ingranaggi sono la responsabilità della scelta e l'inevitabilità delle conseguenze.
Le tue azioni hanno un peso, un errore di valutazione costa caro e riflettere su ogni mossa è l'unico metodo per raggiungere la gloria. Praticamente il contrario delle primarie di partito, insomma.

La reattività del mondo di gioco – e di conseguenza del master – è ciò che può rendere memorabile una campagna in apparenza banale. Fa sentire le nostre scelte essenziali, pesanti e ci incentiva a sperimentare.
È vero che spesso i giocatori compiono scelte radicali e in ultima analisi assolutamente stupide, ma è eccitante fare all-in e riuscire a portarsi a casa tutto il piatto; è epos concentrato come i tubetti di pomodoro. Quando il fallimento non solo è contemplato, ma percepito come il risultato più scontato, il successo è vissuto come straordinario e irripetibile.
Ma a te interessano più il ritmo della narrazione e il nostro destino di eroi baciati dalla fortuna. Più che a creare un parco giochi per i nostri capricci interpretativi, sembra tu stia prendendo appunti per un romanzo tipo I draghi dell'estate di fuoco o un'altra porcheria per cui dovremmo far far finta di non conoscerti quando passi per strada.
Succedono cose strane, quando hai paura che la partita si interrompa per un nostro errore di valutazione.
Se il guerriero carica a testa bassa un gigante del ghiaccio, rettifichi affermando che abbiamo capito male, che figurati, che il suo era un lapsus e che quella lì è un'innocua badante di Ajaccio.
Se ci giochiamo male uno scontro e gran parte di noi muore stupidamente nei primi livelli, vicino ai nostri cadaveri accatastati passa per caso un chierico con una carretta di diamanti e ci resuscita gratuitamente, perché «Sai, è per l'operazione simpatia della chiesa di Lathander».
Se decido di premere quel bottone lì, sì, quello con su scritto "Non premere il bottone", inizi a muoverti a disagio sulla sedia, a farmi l'occhiolino, a indicarmi la mappa con aria disperata. Se continuo a insistere,  ti senti costretto a utilizzare la frase più sbagliata del mondo, la cosa più brutta da dire a un adulto dopo "Non sei tu il problema, sono io": «Il tuo personaggio non potrebbe mai fare una cosa del genere, non avrebbe senso». Se inizi a contestare le scelte dei giocatori invece di punirli per la loro sciocchezza, non puoi che perderli. Da quel momento sapranno che possono scegliere soltanto fra un successo guadagnato o un successo imposto da te.
Niente rischio, niente all-in disperati. Soltanto una montagna russa in cui la corsa finirà sempre con una risata e una foto ricordo. Anzi, nemmeno una montagna russa, più un Brucomela.


Pensaci. Io intanto mi compro la Cittadella del Serpente. Non si sa mai.

martedì 20 novembre 2012

Morte - Parte prima



Ghost, fotomanipolazione di ~efrafa


Dormivo con i fantasmi. In una piccola casa di pietra, abbastanza vecchia ma non troppo, né è questo il punto. Perché loro non erano lì per la casa: erano lì per me, con me. Di giorno e di notte, mi seguivano ovunque, e se qualcuno restava indietro molti altri subito prendevano il suo posto.
Quando erano pochi erano forse una decina, quando erano tanti erano centinaia.
Non che io fossi un medium. Non al tempo, almeno.
Non sapevo se volevano dirmi qualcosa, non sapevo se volevano parlare; non sapevo perché stavano con me.
Sentivo le loro presenze, costanti, in moto perpetuo, come un rumore di sottofondo disarmonico a cui l’orecchio non si assuefa mai del tutto.
Una moltitudine di individualità fusa in un torrente vorticante, decine di voci indecifrabili che formavano un unico rumore.
Più che un seguito, una corte, erano uno sciame di insetti – falene – che ronzava perpetuamente attorno a me, come attratti da una fonte di luce.
Non è che facessero qualcosa di strano tipo muovere oggetti, agitare lenzuoli, far sferragliare catene o inventarsi altri rumori sospetti. Non facevano scherzetti. Alle volte, tutt’al più, la stanza era innaturalmente fredda e fine della storia.
Né, come ho detto, mi parlavano, o se lo facevano io non li sentivo, non li capivo, non ne ero capace. Solo, sentivo che c’erano. Erano lì. Più o meno a destra, ma a due o cinque metri? Più o meno dieci, ma dodici o nove? Più o meno calmi, ma sereni o malinconici?
Non sapevo se mi volevano bene. Non sapevo se la loro presenza fosse una maledizione o un dono. Non sapevo se mi avessero mai aiutato, o se non avessero mai mosso un dito per modificare la mia vita, o mi avessero messo i bastoni tra le ruote, né se volendo avrebbero potuto, né se l’abbiano mai voluto.
Non sapevo se erano attorno a tutti e solo io li sentivo, o se erano solo attorno a me. O se erano attorno a tutti e tutti li sentivano ma nessuno ne parlava, o se erano attorno a tutti e tutti li sentivano e ne parlavano ma non con me.
Avere mille voci in testa e non sentirne nessuna… come una parola sulla punta della lingua, come un ricordo che sta per riaffiorare, perpetuamente statico nella sua imminenza…
Spesso mi attraversavano schegge delle loro emozioni. O dei loro ricordi. Attimi di vite aliene, diverse dalla mia, che vedevo con i miei occhi e sentivo con le mie orecchie e la mia pelle, senza sapere di chi erano, se era uomo o donna, vecchio, bambino, umano; senza sapere cosa c’era prima o cosa c’era dopo.
E avevano sempre un sapore più vero della mia, di vita.
E avevano sempre un sapore buono e un retrogusto amaro.
E regalavano malinconia.

E vivevo in questo modo nella mia casetta di pietra, fatta quando ancora tra il paese e la più vicina città c’erano centinaia, più probabilmente migliaia, di alberi, tanta terra e qualche fiume.
Ma, quando ci abitavo io, la città arrivava fino alla mia casetta, la accerchiava, la superava e proseguiva per un bel pezzo, al di là della curvatura della Terra, dietro l’orizzonte.
E me ne andavo a lavoro, a passeggio, a letto col mio inseparabile sciame di fantasmi, mai da solo, mai in silenzio.

La mia casetta aveva due piani, o quattro a seconda dei punti di vista. Volendo essere completi e partire dal basso verso l’alto c’erano: una piccola cantina, con una decorosa riserva di buoni vini; un piano terra con un ingresso, una piccola cucina, un piccolo bagno e un bel salotto con un grosso tavolo, un divano, due poltrone, un camino e un tappeto; un piano di sopra con due camere da letto e un bagno un po’ più grosso; una piccola soffitta con un piccolo abbaino.

Il mio sciame di fantasmi, compagnia inseparabile, mi seguiva a lavoro, nella mia biblioteca; aleggiavano placidi tra le lunghe file di scaffali, tra migliaia, forse milioni, di libri nuovi, vecchi e antichi. Sempre fluenti, sempre in movimento, ma più lenti e rilassati, come a riposo, come in torpore.
E là, in mezzo a tutta quella carta, lettere e inchiostro, sembravano trovare forse un po’ di pace.

Dei fantasmi, gli uomini non si accorgevano. Ti stringevano la mano – mi stringevano la mano –, ti davano pacche sulle spalle, bevevano birra con te, ridevano e raccontavano storie. E infatti gli amici non mancavano mai. Non che parlassi molto, ma, quando la volevo, avevo buona compagnia.
Ma le donne, le donne se ne accorgevano eccome!
Le donne e gli animali.
Gli animali li sentivano bene, i fantasmi, e forse li vedevano anche. I gatti ne erano affascinati, e correvano a farsi lisciare il pelo, amavano starmi in braccio anche per ore a fare fusa senza posa, si strusciavano sulle mie gambe e, in generale, mi seguivano con curiosità e piacere.
I cani ne erano spaventati, intimoriti, e provavano un rispetto istintivo. Non si avvicinavano mai di loro iniziativa, ma venivano obbedienti quando li chiamavo, e si lasciavano accarezzare, docili e mansueti, aspettando pazientemente che dessi loro il permesso di andare via.
E i fantasmi e io sembravamo essere una cosa sola.
Le donne li sentivano, certo. Li sentivano tutte. Non che li vedessero, ovviamente; né, tranne forse casi molto rari, erano coscienti della loro presenza, o della semplice percezione di una qualche presenza.
Ciò nonostante, li percepivano. In principio ne erano attratte, e così erano attratte da me. I miei fantasmi e io le incuriosivamo, le affascinavamo. Tendevano a noi: a gettarsi nel vortice del loro volo perpetuo, a venire tra le mie braccia.
Ma dopo poco tempo provavano disagio. Forse la presenza diventava opprimente, soffocante. Forse dopo un’evasione dall’ordinario, che raramente viene loro concessa, la voglia di normalità si faceva man mano più forte della curiosità. E allora si allontanavano; perplesse, spesso malinconiche, sempre dubbiose; comunque, si allontanavano.
E i fantasmi e io sembravamo essere una cosa sola.


[Continua]

lunedì 19 novembre 2012

Abramo Lincoln, il percussore di non morti


In un moto di sincerità, ammetto pubblicamente che avrei voluto vedere in sala Abraham Lincoln, Vampire Hunter (rinominato nello Stivale La leggenda del cacciatore di vampiri. Mi stupisce che The Dark Knight in Italia non sia uscito come Se mi lasci ti batarango). Sì, a prezzo pieno. Sì, sono pazzo.
Che ci posso fare, mi intrigava. Forse perché è basato sull'omonimo romanzo di Seth Grahame-Smith, autore reso famoso da Orgoglio e Pregiudizio e Zombie, un'opera subdola (e meravigliosa) capace di far leggere ai maschietti il libro di Jane Austen senza che sentano la propria virilità in pericolo. E poi, insomma, l'idea di un allampanato presidente degli Stati Uniti che passa le nottate a mutilare figli della notte è una roba che travalica lo scemo e si avvicina con passo imperioso alla genialità.
Purtroppo non ho fatto in tempo a godermelo su grande schermo – complice la sua permanenza nei cinema inferiore alla durata del coito di un coniglio – e ho dovuto attendere in fibrillazione l'arrivo di un copia da Blockbu dal mio videonoleggiatore di fiducia.
L'attesa è valsa la pena? Non rispondo, altrimenti non leggete il resto e poi piango.

Il piccolo Abe (posso chiamarti "Abe"? Dài, sei fra amici della Libertà e delle barbe buffe!) già da piccolo sopportava mal volentieri le vessazioni degli schiavisti, gente maleducata che frusta altra gente perché sì.
Un giorno, stanco di questi figuri tristi da romanzo di Dickens, reagisce violentemente alle scudisciate inferte a un proprio amico di colore, scatenando una serie di eventi che porta la sua famiglia a perdere prima il lavoro, poi la vita.

Che belle le spensierate attività comuni a tutti i bambini, come giocare alla guerra, scambiarsi le figu dei calciatori e rincorrere schiavisti con un'accetta.

Essendo il protagonista di un film di menare, Abe è OVVIAMENTE spinto dalla sete di vendetta a scovare l'assassino della madre e porre fine alla sua miserabile esistenza. Ce ne fosse uno che apra pacificamente un negozio di articoli per la pesca alle Hawaii, senza complicarsi troppo la vita. Figurarsi.
Che poi si impegna pure nella sua missione, il povero Lincoln, riuscendo anche a rintracciare il manigoldo e a sparargli in faccia. C'è soltanto il piccolo contrattempo che 'sto schiavista è in realtà un vampiro immortale dalla castagna facile. Seguono le ovvie mazzate in cui Abe viene umiliato come una sceneggiatura dei fratelli Vanzina.

Volevano usare i classici vampiri belli e dannati, ma poi su Groupon per cinque euro potevi prenotare questi cessi e una messa in piega gratis dalla Signora dei Bigodini a Bussolengo, Verona.

Un uomo, il misterioso Henry Sturges, arriva però in suo soccorso prima che Abe venga ulteriormente pestato e bevuto come un succhino alla pera da discount. Dopo un siparietto ridicolo che ha il solo scopo di presentarcelo come un viveur d'altri tempi (sic), il signor Sturges spiega ad Abe come i vampiri siano gli effettivi padroni del Sud del Paese, usino gli schiavi come fonte economica di cibo, abbiano mire espansionistiche nel continente e stiano progettando di aprire attività commerciali a Malindi per evadere le tasse. Gente poco raccomandabile, insomma.

Henry nei suoi primi minuti su schermo riesce a spazzarsi una, bersi un goccetto, accendersi un narghilè e spaccare varie cose nel suo studio. Già che c'era voleva finire le registrazioni di Exile on Main St., ma Keith c'aveva ancora la botta.

In un momento molto anni Ottanta, molto dailacera-toglilacera, Lincoln viene addestrato da Henry nella sacra arte della caccia al non morto, con riprese degli allenamenti e accompagnamento musicale suggestivi come il codino di Steven Seagal.
E uno attento si potrebbe chiedere: «Come fa un comune umano con un'arma bianca a combattere alla pari contro vampiri dalla velocità, forza e resistenza sovrannaturali?». Acuta osservazione. Quel che viene reso noto allo spettatore è che Abe sblocca il suo potenziale fisico usando l'odio e la verità (parole di Henry, mica mie), riuscendo addirittura a tagliare un tronco spesso trenta centimetri con un sol colpo d'accetta. Io affermo da anni che Giuliano Ferrara sia notevolmente e colpevolmente sovrappeso, eppure ancora fatico a portare le confezioni d'acqua su per le scale di casa. L'ingiustizie della vita, proprio.

Dopo aver imparato tutti i trucchi del mestiere in quella che sembra una manciata scarsa di giorni, Abe parte per Springfield, Illinois, con l'intento di studiare giurisprudenza e liquidare su commissione i vampiri locali, così tanti da far provincia anche dopo la spending review (sembra l'effetto descritto in un nostro post della settimana scorsa, sputato sputato).
Prima di partire, però, Henry è stato chiaro: Lincoln non deve farsi amici.
Ed Abe quindi diventa pappa e ciccia con il droghiere che lo assume come garzone e riallaccia i rapporti con Will Johnson, il suo amico d'infanzia abbronzato.
Henry allora si raccomanda di non creare alcun legame familiare.
E perciò Abe si innamora e si sposa con Mary Todd, la bellissima Ramona di Scott Pilgrim vs. the World.
Henry lo scongiura perlomeno di tenere un basso profilo.
E in risposta Abe inizia una carriera politica basando il suo programma sull'emancipazione degli schiavi e sulle tube come nuovo capo d'abbigliamento imprescindibile per un vero gentleman.
Va detto che Lincoln, con all'attivo reati di vandalismo, aggressione, furto, detenzione abusiva di armi, omicidio doloso plurimo e occultamento di cadavere, in Italia finirebbe sulle monete da due Euro per direttissima, altro che carriera politica.


Il primo discorso in pubblico di Lincoln. Notare i soldatini di piombo in scala 1:1 alle spalle della folla per far numero.

Henry, in un momento di lucidità, capisce che forse c'è una differenza d'approccio fra i due e lascia Abe libero di combattere la minaccia dei dannati con la parola, chiudendo nel cassetto il comune e letale strumento da disboscamento.
Il film omette l'ascesa politica di Lincoln e ce lo ritroviamo di colpo presidentissimo e cinquantenne, nel bel mezzo della sanguinosa guerra civile americana: Sud contro Nord, bene contro male, schiavisti contro uomini liberi, vampiri contro gente perbene che preferisce una dieta più povera di ferro.
Un Abe piegato dalle responsabilità e dal tempo ingeneroso si scontra per l'ultima volta contro i dannati, in uno duello di nervi e muscoli che fa costantemente oscillare il conflitto fra il personale e il pubblico, fra la vendetta e la preservazione della specie; ce la farà il nostro eroe eccetera eccetera?
E qui mi fermo, onde evitare di svelare quei pochi colpi di scena che il film offre (poi, se qualcuno ha dubbi sugli esiti della crociata di Lincoln, è evidente abbia visto pochi film hollywoodiani) e rischiare di omettere la parte più importante di questo articolo.


Il momento "NUOOO" della pellicola, così telefonato che la Telecom ha già mandato al regista le bollette 2013-2014.
E sì, l'Abraham Lincoln di Benjamin Walker ha spesso queste espressioni sobrie e per niente caricate.

Senza voler entrare nel merito della qualità intrinseca della pellicola, come avrete intuito piuttosto bassa, la domanda più importante da porsi è se meriti di essere guardato.
Il russo Timur Bekmambetov, dopo quel Wanted per cui sotto regime sovietico sarebbe finito a raccogliere mirtilli a mani nude in Siberia, offre questa volta una prova registica tutto sommato onesta, a tratti addirittura gradevole quando immortala sganassoni e piroette. Certo, soffre ogni tanto di ipercineticità e l'uso compulsivo di slo-mo ormai puzza di stantio, ma le ottime coreografie e certe scelte felici nella messa in scena riescono a mantenere sempre alta l'attenzione dello spettatore. 
I problemi appaiono piuttosto evidenti quando si passa dall'accetta alla parola; la sceneggiatura lacunosa, con singhiozzi preoccupanti nelle sequenze descrittive, e alcune performance attoriali da Alvaro Vitali in pensione mandano spesso a peripatetiche ogni tentativo di mantenere credibile la storia nonostante le premesse bislacche. 
Il film ha sì il merito di provare a far coesistere un'anima sobria e misurata a un'esposizione eccessiva e caciarona, ma fallisce nel risolvere felicemente questo contrasto, lasciando alcune volte lo spettatore spiazzato, confuso e incapace di decidere se debba ridere o annuire pensoso alle trovate di Grahame-Smith.

Un porcaio inguardabile, quindi? No, per niente. Rimane certamente l'amarezza per un'occasione sprecata e la consapevolezza che in mani più coraggiose il soggetto avrebbe maggiormente brillato, ma credo meriti una visione, specialmente se preso come il puro intrattenimento senza pretese qual è.
Del resto, se ci accontentassimo di visionare soltanto film totalmente riusciti, avremmo troppo tempo libero e ci sarebbe il concreto rischio di sfruttarlo per attività vergognosamente produttive. Brrr.

Dategli una possibilità e fatemi sapere. Aspettando Mahatma Gandhi, sobillatore di banshee.