Prima che rintocchi il mezzodì, sono solito trascorrere un'oretta seduto su qualche scomoda panchina di un parco, generalmente per indugiare nell'osservarvi. Del resto, lo studio dei mortali di superficie rimane un gradito passatempo mentre attendo che Vandemar torni dal macellaio con un trancio di macellaio per pranzo.
Fra i parchi Reali che puntellano di verde la grigia Londra, non vi è dubbio che Hyde Park sia il mio prediletto. Non solo per le ammutolenti viste sull'agglomerato urbano più riprovevole dell'intera Britannia, ma anche per le innumerevoli storie che si sono consumate all'ombra dei suoi quattromila alberi.
Le loro radici sono intrise di sensazioni appartenenti alla sfera sensibile e a eventi le cui risonanze scuotono invisibilmente le cortecce, strisciando fino alle spigolose punte dei rami. Ciò che mi delizia è la qualità di tali storie. Violente, meschine e intrise di umana ottusità. Certo, si sente anche il sapore di amori appena sbocciati e galanti intenzioni. Ma sono emozioni il cui flebile ronzio viene affogato dal roboante chiasso della brutalità.
Hyde Park ha un ottimo odore di sangue, vi assicuro. Del sangue degli animali cacciati per solo spirito agonistico, creature trucidate per re e nobilotti dai sopiti istinti predatori. Del sangue delle vittime dell'illuminata Legge Umana, i cui colli furono spezzati sul purtroppo smantellato patibolo di Tyburn. Del sangue dei morti per l'orgoglio di un cognome o di un titolo, durante patetiche danze di duellanti dal sangue caldo e rigorosamente blu. Di carne e umori carbonizzati di Reali Cavalieri, saltati in aria nel nome dell'indipendenza di un Paese.
Aah. Dire che è una sensazione piacevole sminuirebbe la portata del mio estasiato gongolare.
Seduto su una panchina, mi godo nuove generazioni di donne e uomini d'affari correre in tute firmate. Studenti intenti a leggere un libro o a spalmarsi su un altro studente. Nessuno di loro si accorge consciamente delle ossa che sta calpestando. Ma confido nella memoria collettiva, per una gustosa sorpresa.
Oggi, poi, ho avuto addirittura il piacere di condividere un po' del mio sapere con un infante mortale. Ne sono rimasto estasiato, poiché credo fermamente nell'importanza del ruolo pedagogico del Male.
Erano due cuccioli. Uno umano, l'altro canide. Mi avvicinai al secondo per osservarlo meglio. Sembrava un volpino, per giunta di certificata razza.
«Signore, quello è il mio cane.»
Sentii questa voce alle mie spalle, mentre rannicchiato ero intento a sfiorare il fulvo pelo dell'animale.
Mi voltai verso la fonte della voce senza aggiungere alcun suono alla perfetta torsione del capo e del busto, in un armoniosa postura rilassata.
Osservai il cucciolo di uomo che si parava davanti al mio sguardo, con i suoi disgustosi capelli color grano e la sua piccola statura. Presi in braccio il cane, con elegante distacco.
«Bambino, questo non è il Suo cane.»
Lui mi osservò dal basso verso l'alto, i suoi sproporzionati occhioni di un blu acceso si alternavano fra la mia mano che carezzava il capo dell'animale e i miei denti appuntiti. Il suo piedino destro, stretto in una scarpina di ottima fattura, grattava incerto con la punta il cemento della strada in penombra.
«Signore, le assicuro che è il mio volpino. L'ho addomesticato.»
Non potevo che farmi scappare una risatina davanti a cotanta innocenza naïf, se mi permettete l'inappropriato francesismo. Converrete con me che a tale inaspettata possibilità di improvvisare un siparietto comico, un uomo di modesta ma solida cultura come il sottoscritto non può tirarsi indietro.
«Comprendo. È il suo cane quindi, signorino.»
Mi presi un attimo per simulare un cogitare prolungato mentre grattavo con l'indice il capino del cane.
«Sa, signorino, cos'è l'impermanenza?»
Il bambino biondo mi osservò a bocca leggermente dischiusa, mentre scuoteva silenziosamente il capo in segno di diniego.
«Immaginavo. Ogni cosa che la circonda, signorino, è impermanente. Anicca. Detto in termini comprensibili alla vostra acerba età, non vi è nulla che sia permanente. Ciò che i suoi sensi possono percepire è destinato inevitabilmente a mutare, trasfigurandosi. Non c'è nulla di compiuto, di finito e di autoconclusivo. E se non vi è nulla di conclusivo, non vi è nulla che possa essere considerato proprio in senso assoluto.»
Posai la mano a palmo aperto sul capo del volpino, serrando le mie deliziose falangi come artigli sul suo piccolo cranio.
«Non possediamo alcunché, tranne una minuscola ma gratificante cosa. Sa qual è, signorino, questa cosa?»
Il bambino mi osservava con azzurra espressione bovina, sebbene non riponessi alcuna speranza in una sua eventuale comprensione dei principi dell'esistenza cosciente. I miei polpastrelli affondarono nella pelliccia dell'animale che non si astenne da deliziosi e acuti guaiti.
«Non lo sapete? Noi possediamo solo l'istante dell'ora, il sospiro fra il sorgere e l'appassire del momento.»
Un colpo secco del polso e un udibile schioccar di ossa fecero trasalire il bimbo. Adoro quando i loro occhi si gonfiano di sentite lacrime salate, il volto contratto da ancora sconosciuti spasmi di dolore. Eeeh. Queste visioni mi ricordano la mia gioventù burrascosa, ricordi che tento sempre di nascondere al mio analista prima di mangiargli un'altra appendice.
Lasciai cadere il cane morto al suolo, godendomi l'istante in cui il collo molle del cadavere impattò al suolo. Il bambino con i capelli del grano singhiozzava, ripetendo soltanto un francamente noioso e querulo "perché?".
Noioso bambino. Comprendo la fisiologica mancanza di vocaboli data dalla giovane età, ma tali ossessive ripetizioni sono sinonimo di una dieta povera di fibre e calcio.
Sospirai.
«Perché l'ho fatto, intende dire? Perché vivo l'istante. E perché la vita è dolore, l'io non esiste e tutto ciò che ci circonda è impermanente.»
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