Non so se capiti anche a voi, ma per quanto mi
riguarda il tempo libero da poter dedicare ai videogiochi è sempre meno. Titoli
su titoli per console varie accumulano polvere, abbandonati in un angolo prima
di essere portati a termine, alcuni addirittura ancora sigillati. La situazione
per pc non differisce di molto, non fa altro che trascinarsi su un desktop
virtuale e rendersi così immune quantomeno alla polvere.
Nota mentale: più jpeg, meno action figures.
Ciononostante, ogni tanto mi cimento nel mio passatempo
masochistico preferito: consultare la rete alla ricerca di un nuovo RPG,
preferibilmente JRPG. Fugo subito ogni dubbio, la J non sta per Jenga, come la
maggior parte di voi avrà sicuramente pensato, bensì per l’insospettabile
“Japanese”. Bizzarro il mondo dei videogiochi, nevvero?
Insomma ci impiego proprio le ore, accumulo
liste di giochi annunciati che probabilmente non usciranno mai, o che non
varcheranno il confine asiatico, scanso molteplici titoli erroneamente finiti
nella categoria pur non appartenendovi e ne scarto altrettanti spacciati per
tali ma che poi alla fine si rivelano essere poco più di action/sparatutto, se
vi va di lusso col passaggio di livello, altrimenti manco quello.
Poi l’anno scorso vedo lui: Ni No Kuni. All’epoca
già uscito in Giappone, veniva descritto come un vero, classico JRPG, con
qualche ibridazione soprattutto sul sistema di combattimento, ma in buona
sostanza degno erede di Cloud, Squall, Gidan e Tidus. E basta.
Eppure c’era qualcosa che non mi convinceva. Lo
stile grafico dello Studio Ghibli era sì bello ma anche fiabesco, fanciullesco:
temevo fosse targettizzato a un pubblico troppo più neofita, avevo paura del
titolo da effetto Wii, più “per tutti” che per gamer.
Passano i mesi e me ne dimentico completamente. Nel
frattempo lui se ne esce anche da noi in Europa e la comunità di gamer comincia
a giocarci. Io niente, continuo a dimenticarmene e sorprendentemente non lo
incontro più nelle sporadiche sessioni di
“fatti-del-male-guardando-ciò-a-cui-non-puoi-giocare”. Nome all’altezza del
livello qualitativo dell’attività stessa.
Un mese fa leggo l’aggiornamento di stato di un
amico, uno di quelli coi gusti simili, che quando consiglia un’esperienza di
gioco raramente ti delude. Perché di tempo per i videogiochi non ne ho, ma per
Facebook…
Vabbé, tana per me. Insomma leggo che gli stava
piacendo, e anche parecchio. Valuto la cosa attentamente finché guido già
spedito verso il rivenditore di fiducia e lo compro più o meno istantaneamente.
Un po’ per la voglia di giocarlo subito (ri-tana per me), un po’ perché so che
Miyazaki piace anche a lei, propongo alla mia ragazza, appena arrivata da me,
di provarlo insieme.
Semplicemente il gioco perfetto. Inizialmente più
dedicato con tutta probabilità a un pubblico neofita, in questo caso
rappresentato da lei ancora agli esordi nella sua esperienza consoleistica,
avanzando col gioco coinvolgeva sempre di più anche il vecchio veterano più
abituato a combattimento su griglia o a turni ben marcati.
Ad oggi è diventata una droga. Per entrambi. Ce ne
siamo resi conto proprio domenica scorsa, accendendo la Play alle 11:00 per poi
spegnerla alle 22:00. Con molta, moltissima fatica e forza di volontà.
L’elemento che forse mi sorprende più d’ogni altro
quando mi fermo a pensarci, quindi solo ora e solo perché mi è venuto il tarlo
di scriverci un articolo, è l’essere una forma di divertimento tranquillo,
spensierato, no stress. Ora ho capito a cosa si riferiva quel mio amico
accennando al fatto che esercitava su di lui una sorta di effetto terapeutico.
Una descrizione nella quale mi ritrovo a meraviglia.
L’elemento fiabesco c’è eccome ma non stona affatto
con l’esperienza di gioco offerta, sempre più profonda e costellata di missioni
secondarie con le quali intrattenersi. Perché diciamolo: se sei alla ricerca di
un JRPG non intendi metterci meno di cinquanta ore per finirlo. E anche cinquanta sarebbero
un po’ pochine. JRPG nel mio personalissimo vocabolario è diventato sinonimo di
“fai la storia principale finché serve, poi esplora il mondo da cima a fondo”.
Bada bene, non free roaming puro. Per me il free roaming è ancora
destabilizzante, per quanto sia consapevole della sua larga diffusione, anche a
livello di gradimento.
Continuo a preferire il gioco diviso per gradi, che
ti fa da tutorial finché ti serve e poi ti lascia quantità di spazio libero
progressive ed esponenziali. Un po’ come una mamma vecchio stampo, che porta il
bimbo al parco in braccio, poi lo accompagna per mano, poi lo fa giocare da
solo “ma non allontanarti troppo”, poi lo fa andare a giocare dall’amico previa
consegna di indirizzo o numero di telefono e poi… poi prima o poi cresce e si
perde nel mondo. Ecco. Ora sono arrivato proprio a perdermi in quel mondo
fantastico.
L’effetto è stato più o meno quello del Garden di
Balamb che si alza in volo. L’emozione di poter finalmente andare in quel
posto, quello che lo vedi ennemila volte e non capisci come caspio arrivarci,
quell’isoletta nel nulla che urla “qui c’è nascosto qualcosa di segreto e
troppopiùpotenteassai!”.
Dio vi benedica, isolette nel nulla.
Ma perché Gajardo? Chi l’ha giocato già lo sa. A
chi deve ancora giocare posso solo dire questo: ho adorato il lavoro di
localizzazione in lingua Italiana. Evento più unico che raro. Sono pochissimi i
film, telefilm, fumetti e cartoni animati che possono vantare un’ottima resa
nella nostra spesso bistrattata lingua. Ancor meno i videogiochi. Non tanto a
livello di doppiaggio, nemmeno presente in questo caso specifico, mi riferisco
più alla resa di concetti particolari, gap culturali o nella maggior parte dei
casi semplicemente arguti giochi di parole. Confesso che non conosco la
versione originale, ma i giochi di parole italiani sono incantevoli. Io poi che
adoro fondere due parole in una ho trovato un universo a misura di Deo. Un
Deoverso, tanto per fare un esempio. In questo sono stati dei maestri.
Tornando al nostro “Gajardo!”, il riferimento è
dedicato al nostro tutorial con le gambe, anzi, con le gambette: il mitico
Lucciconio, la cui parlata bizzarra è stata resa in un convincentissimo romanesco
riadattato per essere inteso dal grande pubblico.
Insomma, sia che siate alla ricerca di un’esperienza
di gioco rilassata e rilassante o di un titolo avvincente e longevo, Ni No Kuni potrebbe essere proprio ciò che fa
per voi. Se poi volete provare il mio stesso esperimento, fatemi sapere com’è
andata. Noi ci rimbalziamo serenamente il joystick, tra l’uno e l’altra, col
partner che guarda a turno e quasi si diverte di più del “collega” indaffarato/a
a tener viva la squadra.
MINI SPOILER ALERT
Che non vi dico poi chissacché di trascendentale, ma
i più sensibili intanto li ho avvisati
L’appagamento maggiore lo sta ricevendo il mio
animo da “spuntatore”. Alla base del neologismo “farmare”, l’attività dello
spuntatore consiste nell’avere una quantità di cose da poter fare che vanno via
via svolte e quindi mentalmente o fisicamente “spuntate”, depennate
possibilmente imitando il baffo della Nike.
Lo spuntatore ha gioito nel
ritrovare sempre nuove missioni in vecchie città. Lo spuntatore ha reso grazie
quando è arrivato al torneo dei famigli, già grato al concetto stesso di
famigli e al numero di essi contenibile nell’apposita tana. Lo spuntatore era
comm-osso (!!!) quando è entrato per la prima volta al casinò degli scheletri.
Infine, ma solo perché alla fine ancora non ci è giunto, lo spuntatore è
letteralmente impazzito ad andare in volo alla ricerca dei vari tesori
disseminati un po’ ovunque. La meraviglia, il paradiso della spunta.
Deo Divvi, non pago di bloggare a vanvera, è anche impegnato in 2 progetti largamente attinenti al mondo del fantastico: un serial book fantasy dal nome "Il Cubo di Enascentia" e Thy Shirt, un sito di magliette nerd.
Collabora inoltre con Cultura Ibrida, il blog della casa editrice Lettere Animate.
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