Non è l’unica parte interessante del libro, l’arrivo dei nani in casa Baggings reputo sia da Oscar; ma tale episodio solleticava la mia disdicevole passione per l’enigmistica, che si manifesta, come male di stagione, solo d’estate.
Leggo il noto settimanale #@#@@[? solo con trenta-trentacinque gradi all'ombra, inizio con qualche cruciverba, sono sconfitto senza infamia da Bartezzaghi, ma mi perdo volentieri, forse per deformazione professionale, nella pagina della Sfinge, dove spesso esco vincitore.
Magra consolazione, tenendo conto che i nostri antenati immersi in una foresta di rappresentazioni grafiche, benché spesso analfabeti, avevano la disponibilità mentale alla decifrazione di segni e simboli, tanto da far invidia allo zio Umberto o a Jessica Alba nella parodia del Codice Da Vinci agli MTV Movie Awards del 2006.
Girovangando per musei e non
avendo la fortuna di incontrare la Jessica di cui sopra, vengo un giorno a
conoscenza di una simpatica stele egizia del sacerdote Neb-Wenenef (un nome un
codice fiscale).
La solita stele autobiografica con esaltazione del
proprietario/protagonista, scritta sul linee parallele, da destra verso
sinistra, dall’alto verso il basso. Strana fu la presenza nella parte centrale
di due linee che sembravano indicare una frase, ma che partiva dall’alto verso
il basso e si intersecava con il testo scritto nel modo consono. La frase
evidenziata diceva chiaramente: «Il
privilegiato, durevole di favori presso gli dèi dell’Occidente giusto di voce
davanti ad Osiride».
Un cruciverba? Il papà di tutti i cruciverba? Era
proprio così.
Gli antichi egizi fanno, allo
stesso modo dei loro vicini sumeri, un passaggio mentale non indifferente,
riuscendo a passare dal valore ideografico del segno al valore fonetico. Il
valore fonetico del segno è ricavato dal nome dell’oggetto rappresentato,
secondo il principio del rebus: una rappresentazione di una parola o di una
sillaba attraverso il disegno di un oggetto, il cui nome assomiglia nel suono
alla parola o alla sillaba. In questo modo tutte le parole, i morfemi, i suoni
della lingua potevano essere più o meno riprodotti, e il nuovo sistema di
archiviazione poté essere utilizzato alla sua massima potenza: non solo per usi
amministrativi, ma anche per esprimere qualsiasi pensiero.
A questo si aggiunse il fatto che
i geroglifici erano inseriti mediante delle regole fisse nella riga del testo a
seconda della loro dimensione, cosicché i segni stessi si dipanavano
all’interno di ipotetici quadrati (un po’ come i quaderni del secolo scorso).
Tale sistema fece sì che giochi
di parole, rebus, nascessero insieme alla scrittura stessa, i cui limiti erano
imposti dalle disposizioni della corte a tutti gli scribi, ma soprattutto dalla
fantasia dello scriba stesso, in quei casi in cui la sua mano era
libera di andare oltre.
La statua nella figura precedente rappresentante un
bambino col il tipico dito in bocca, protetto dal dio Horus, in realtà è
semplicemente la trascrizione del nome del principe Ramessu (o Ramesse come
diciamo noi): il dio Horus rappresentava in questa epoca il dio solare Ra; bambino che in egiziano si diceva mes, e nella sua mano sinistra una pianta
di papiro, sw in egiziano.
RA+Mes+Sw=Ramessw.
Ma si poteva andare oltre? O era
necessario attendere Bartezzaghi (anche se i più acculturati diranno Arthur
Wynne). Si poteva andare oltre. Non conosciamo il nome, ma quattromila anni fa uno
scriba volle lasciare scritto quello che secondo lui era il vero valore
aggiunto del cruciverba: l’apprendimento. E ci lasciò questo testo:
È un cruciverba in tutto e per
tutto, potendolo leggere in ogni riga dall’alto verso il basso e da destra
verso sinistra (mancano ovviamente le definizioni essendo un testo continuo). È
un ibrido tra quello a schema libero e quello sillabico. E al di là della mera
traduzione, questo antesignano del nostro Bartezzaghi ci racconta il valore
didattico di questo gioco (come di tutti i giochi), la possibilità di
apprendere difficili lezioni grammaticali, costruire mappe concettuali, analizzare
le singole lettere che compongono le definizioni, sviluppare una memoria visiva
schematica (cfr. Jessica Alba).
L’ambiente scribale affiancava
questi giochi di parole a veri e propri indovinelli, quelli giunti fino a noi
sempre con fini didattici. Nel papiro matematico Rhind (un tantino antico, giusto di 3600 anni fa) si trova un problema matematico posto sotto forma di indovinello: «In una proprietà ci sono 7 case, in ogni
casa ci sono 7 gatti, ogni gatto acchiappa 7 topi, ogni topo mangia 7 spighe di
grano, ogni spiga dà 7 misure di grano. Quante cose ci sono in tutto in questa
storia?».
Nasce anche grazie a questi
documenti il mito dei geroglifici egizi e della cultura esoterica dell’Egitto
stesso. Nel corso del I° millennio a.C. nasce una nuova scrittura e l’egiziano
antico si sviluppa in una nuova lingua letteraria più aderente alla realtà: il
demotico.
La scrittura demotica ha origine da una nuova visione grafica basata
su versioni semplificate di gruppi di segni e sull’abbandono dell’immediatezza
iconica dei geroglifici. Gli scribi egizi avevano imboccato definitivamente la strada
del principio di dissociazione tra suono e significato, arrivando a creare un
mezzo espressivo aperto alla scrittura di lingue diverse dall’egiziano: il
Papiro Amherst 63 è in lingua aramaica ma scritto in grafia demotica. Ma cosa
più importante, si inizia a concepire la possibilità di scrivere la lingua
egiziana in grafia diversa, ad esempio quella greca. Restano tuttavia in uso la
scrittura geroglifica e la lingua classica fino al 24 agosto del 394 d.C., data
dell’ultimo documento in geroglifico. Il demotico sopravvivrà poco più:
l’ultimo testo datato è del 452 d.C. La scrittura geroglifica è sempre più
patrimonio della sola casta sacerdotale, sempre più chiusa in se stessa, tanto
che nell’Egitto cristiano si utilizza l’alfabeto copto composto dalle 24
lettere dell’alfabeto greco e da alcune lettere derivate dal demotico per
rendere i suoi peculiari della lingua egiziana (nel disegno successivo la
parola “Egitto” in geroglifico, ieratico, demotico e copto).
Aumentano i segni utilizzati e i
significati a essi correlati, ma sempre più lontani dall’antica cultura e
tradizione. Nel III secolo d.C. Plotino decretò «i saggi
dell’Egitto [...] per designare le cose con sapienza non usano lettere disegnate
che si sviluppano in discorsi e proposizioni e rappresentano suoni e parole;
essi disegnano immagini, di cui ciascuna si riferisce a una cosa distinta, e le
scolpiscono nei templi [...] ogni segno inciso è dunque una scienza, una saggezza,
una cosa reale...»; e da quel momento nacque l’idea che i geroglifici non
avessero valenza fonetica, bloccando così per secoli ogni tentativo di
decifrazione e comprensione della lingua fino al nostro Champollion.
Non
possiamo colpevolizzare del tutto il povero Plotino, già Horapollo nei suoi Hieroglyphica,
un manuale sui geroglifici scritto tra il II e il IV secolo d.C. una piccola
guida alla decifrazione dei geroglifici, totalmente simbolica, e in parte
fantasiosa (meno di quanto ci si aspetti), contribuì ad affermare un concetto dell’Egitto
quale terra mistica, densa di magia benefica, il luogo simbolo di una
conoscenza misterica esclusiva, riservata a pochi eletti, raggiungibile solo
attraverso un percorso iniziatico.
Ad esempio: «Quando vogliono
indicare colui che osserva le stelle [Horoskopos], dipingono un uomo che mangia le ore; non perché l’uomo mangi realmente
le ore, ma perché l’alimentazione dell’uomo è regolata con esse [Hieroglyphika I,42]»; o ancora «Quando vogliono rappresentare l’universo
raffigurano un serpente punteggiato di scaglie multicolori che si mangia la
coda; le scaglie alludono alle stelle del cielo. Ogni anno si spoglia della
pelle e quindi della vecchiaia, così come il ciclo annuale nell’universo si
rinnova. Il fatto che il serpente si cibi del proprio corpo indica che tutte le
cose che nell’universo sono generate dalla divina provvidenza, subiscono anche
un processo di diminuzione [Hieroglyphika
I,2]».
Horapollo è qui portavoce della tradizione “occidentale” che sceglierà
il serpente che si morde la coda come simbolo magico, alchemico ed ermetico (si
pensi alla simbologia degli gnostici Ofiti), di origine egiziana, che subisce
una reinterpretazione classica: le squame come stelle si ritrovano in Porfirio;
od ancora i vari scritti naturalistici greci utilizzati come base per la
descrizione del serpente.
Queste opere danno vita, nel
tempo e nelle fertili menti europee, ad opere e interpretazioni follemente
straordinarie come quelle di Athanasius Kircher (1602-1680) secondo il quale ogni
simbolo racchiudeva in sé una molteplicità infinita di significati, rivelati
dalla divinità direttamente a chi li aveva scritti, cosicché era possibile riscontrare
elementi religiosi del cristianesimo anche nei segni geroglifici, a causa della
comune origine divina della rivelazione cristiana e della sapienza egizia; e la
natura "magica" del geroglifico rispetto all'alfabeto normale
richiedeva un'attitudine simile a quella dell'iniziato, un percorso che
permetteva di penetrare i significati ermeticamente "sigillati" nei
segni sacri.
No Response to "Indovinelli, Anagrammi e Cruciverba: da Bilbo a Neb-Wenenef"
Posta un commento